La Corte Costituzionale ribadisce, ove fosse necessario, che le disposizioni del D.M. 1444/1968 in materia di distanze contengono limiti precettivi e inderogabili per i legislatori regionali, che pertanto non posso fissare distanze diverse nel senso di meno restrittive.
Con legge
4 settembre 1979, n. 31 (B.u.r. 8 settembre 1979, n. 49) la Regione Marche introdusse, "
per gli edifici aventi impianto edilizio preesistente, compresi nelle zone di completamento con destinazione residenziale previste dagli strumenti urbanistici generali comunali approvati", la possibilità di consentire "
ampliamenti alle case a un piano fuori terra e alle costruzioni che, avuto riguardo alla struttura edilizia esistente e agli edificicircostanti, presentano evidenti caratteristiche di non completezza" (art. 1, comma 1).
Gli ampliamenti erano consentiti "
anche in deroga alle distanze e/o al volume stabiliti per le suddette zone territoriali omogenee dal DM 2-4-1968, n. 1444, ferma restando la dotazione minima inderogabile per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio " (art. 1, comma 2).
La Corte di cassazione, sezione seconda civile - investita della domanda di accertamento della
violazione delle distanze legali, rigettata in sede di primo e secondo
grado, con la quale i ricorrenti presso la Corte di cassazione avevano
chiesto la condanna della controparte ad arretrare e dunque a demolire
l’ampliamento di un edificio realizzato da quest’ultima - con ordinanza depositata il 29 dicembre 2011 e iscritta al n. 177 del registro ordinanze 2012 della Corte Costituzionale,
ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale del secondo comma della disposizione, con riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione, ritenendo
che tale normativa sia in contrasto con l’art. 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), che fissa una distanza minima tra gli edifici, commisurandola alla dimensione delle strade e consentendo tuttavia l’edificazione a distanze inferiori «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
In linea di principio - afferma il Giudice delle Leggi - la disciplina delle distanze
minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e,
quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle
normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata
dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del
territorio.
Se da un lato non può quindi essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici,
dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, questa "
è rigorosamente
circoscritta dal suo scopo – il governo del territorio – che ne detta
anche le modalità di esercizio", così che
la legislazione regionale che
interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue
chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività
dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n.
232 del 2005).
mentre
Le norme regionali che, disciplinando le distanze
tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella
materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra le due competenze è fissato nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 ("
Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei
precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche", che la Corte ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e
inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato»
(sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232
del 2005).
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale,
solo «nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Le
deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque,
consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti
urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario
di determinate zone del territorio.
Va da sè, in conclusione, che la norma della Regione Marche
infrange i principi sopra ricordati,
in quanto
- consente
espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel
d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite
dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come
si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti
urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del
territorio;
- autorizza
i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle
distanze minime.
La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di
realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una
determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche
individualmente considerate.
Da ciò, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 1,
secondo comma, della legge regionale Marche n. 31 del 1979 deve essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la
competenza regionale concorrente del «governo del territorio», violando
il limite dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva
dello Stato.
La sentenza 23 gennaio 2013, n. 6, della Corte Costituzionale è disponibile sul sito della Corte a questo indirizzo.